I've got no time for feeling sorry!

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scarlett;
» Posted on 10/3/2011, 21:18




Weeell.
Questo è solo una bozza e la prima parte di quello che ho in mente. E' un po' incasinato e non sapevo dove postare.
Spostatelo pure se volete.
Per ora non ha tipo una direzione ma a breve ce la avrà. Questo è un pezzo molto lungo, non aveva senso postare un pezzetto se poi lo avevo già scritto. Se posterò con continuità, ci saranno capitoli papiri e altri manco tre righe magari.
Potrebbero esserci errori, non l'ho ricontrollato.
HERE i commenti.


I've got no time for feeling sorry!

Parte 1:
«Sei la persona più incasinata che io conosca.» mi disse mia sorella, con tono critico. Non risposi.
«La smetti di ignorarmi?» mi chiese. Entrai nel bagno per mettermi la matita nera, contornandomi gli occhi con estrema precisione. Continuai a non dire niente.
«Sempre con questo nero!» mi criticò guardandomi. Non potevo darle torto, indossavo un paio di pantaloni neri, una felpa nera, le Chuck Taylors nere con i lacci bianchi. Avevo lo smalto nero. Però, avevo i capelli rossi e una bandana rossa legata al polso.
La guardai come se non parlassimo la stessa lingua. Mi seguiva ovunque andassi.
Entrai in camera per prendere la tracolla e l'I-pod. E lei continuava a seguirmi, criticandomi.
«Che ora è?» domandai poi, ad un certo punto.
«Le sette.» mi rispose sconcertata. Andai in cucina a prendere la colazione, era abbastanza tardi e dovevo prendere l'autobus.
«E non hai niente di meglio da fare che criticarmi?» mi fermai sull'uscio prima di andarmene definitivamente.
Scesi in strada tirando su il cappuccio e mettendomi le cuffiette. La musica partì a tutto, facendomi sobbalzare all'istante. Non era affatto consigliabile ascoltare i Bring me the horizon alle sette di mattina. Cambiai canzone, andando sul classico: Green Day.
D'un tratto una macchina si accostò accanto a me. La riconobbi., ma cominciai a camminare più veloce. Dopo poco, nonostante le note pesanti, sentii la macchina spegnersi e il guidatore mi fermò trattenendomi per un braccio. Cercai di divincolarmi ma non ce la facevo seriamente. Era più forte di me, era più alto di me. Era bello.
Riuscì a prendermi a persino a baciarmi. Che stronzo schifoso. Sentii le ginocchia crollarmi, perchè baciava dannatamente bene. Mi cinse la vita toccandomi ardentemente. Scese a baciarmi il collo, lasciandomi segni quasi indelebili. Per la mia mente. Si avvicinò al mio all'orecchio e mi disse autoritario: «Voglio scoparti, ora.».
Deglutii. «Devo andare a scuola, ora.» lo avvisai con la voce spezzata dagli ansimi.
In strada non c'era nessuno, e non passava nessuno. Non riuscii ad oppormi nonostante sapessi che era sbagliato.
Uno, perchè sapevo che fare sesso prima di andare a scuola era orribile.
Due, perchè quello era il ragazzo di mia sorella.
Mi fece entrare in macchina sui sedili posteriori. Continuò a baciarmi facendomi quasi male, come se volesse strapparmi le labbra.
Mi tolse la felpa e poi i pantaloni stretti. Stava facendo tutto lui, mentre io rimanevo inerte difronte questa situazione. Non era la prima volta che succedeva tra di noi due, ma ogni volta che succedeva mi promettevo che era l'ultima.
Si tolse la camicia rimanendo a petto nudo. Era perfetto, aveva gli addominali scolpiti. D'altro canto era stato un atleta. Si tolse poi i jeans e potei ammirarlo meglio per l'ennesima volta. Purtroppo conoscevo ogni centimetro del suo corpo a memoria. Mi fece scivolare le mutande e poi me la fissò.
«Quando ti depili?» mi chiese toccandomela. Mi piaceva da morire il suo tocco, ma imponevo di non farmelo piacere.
«Non sono fatti tuoi.» risposi acida. Mi slacciò il reggiseno e mi guardò un attimo, giusto il tempo di sfilarsi le mutande, mettersi il preservativo e farmi mettere sopra di lui per esplodermi dentro. Partì piano e aumentò il ritmo facendomi male. Non stridevo come una gallina e non ansimavo come un cane. Avevo imparato a stare zitta, a tenere un comportamento rigoroso da sesso in auto.
Ringraziai che fossimo in una strada isolata e lontani da casa mia, che la macchina fosse abbastanza grande e che i vetri fossero oscurati. Era anche abbastanza scuro e non si vedeva niente. Dopo l'ultima spinta, mi aiutò a rivestirmi e mi accompagnò a scuola. Continuava a ripetere che ero bellissima, fantastica, molto più di mia sorella. Scesi dalla sua auto, senza neanche salutarlo.
Appena entrata, mi diressi subito in bagno per vedere come ero ridotta. Dalla mia tracolla presi la spazzola e la matita per sistemarmi il trucco. Non ero poi così orribile, ma sul collo avevo degli enormi succhiotti che coprii con i fondotinta.
Era qualcosa di fastidioso cominciare la settimana in quel modo, subito con questa botta di adrenalina. Dopo un week end passato per la maggior parte in camera mia ad ascoltare musica. Piano piano e senza voglia mi diressi nell'aula di storia. C'era il compito e, come sempre, non avevo studiato. Ma avevo il tizio seduto accanto a me che per cinque minuti insieme mi passava tutti i test. Non mi ricordavo neanche il suo nome.
Entrai sedendomi nell'ultimo banco, il mio solito posto. Il tizio mi guardò con aria soddisfatta e la professoressa iniziò a distribuire i fogli. Mi sarebbe bastata un 7. Lessi la prima domanda, e poi la seconda e la terza. Mi arresi e, sporgendomi, iniziai a copiare. Per prendere un 7, mi bastava azzeccare 10 risposte su 14, quindi quattro le tirai a caso. Per il resto copiai spudoratamente. Finita l'ora, rimasi seduta al mio posto, guardandomi intorno. In classe c'era uno nuovo che mi fissava e ciò mi rendeva soddisfatta. Avevo voglia di provocarlo, per vedere come reagiva. Chiesi alla professoressa di poter temperare la matita e mi alzai passandogli davanti. Mi seguì con lo sguardo. Sorrisi beffarda e notai con piacere che apprezzava il mio corpo, facendo scivolare più volte lo sguardo sul mio culo. Finii di temperare la matita e tornai al mio posto. La geometria non mi piaceva, ma in fondo era proprio la concezione di scuola che non mi piaceva.
A ricreazione avevo appuntamento con quel tizio che mi passava i test, e non tardai ad arrivare. Ci incontrammo dietro la scuola, dove fortunatamente nessuno poteva vederci. Mi feci palpare le tette da sopra il reggiseno per quattro minuti, a lui bastava questo. Che poi, non avevo capito che avevano di bello. Non arrivavo neanche alla terza. Mi guardò estasiato e io provai disgusto. Certo, se fossi stata un uomo, mi sarei fatta. Ma divertirsi per così poco. Me ne andai al distributore a prendermi una coca cola. Uscii in cortile a bere la mia coca cola, con le cuffiette e da sola. Come sempre.
«Hai un accendino?» mi chiese quello nuovo. Feci di no con la testa. Rimise a posto la sigaretta e rimase lì con me. «Che ascolti?» mi domandò curioso.
«Arctic Monkeys.» risposi annoiata.
«Tu sei Alex Carson, no? Sei parente a Judith Carson, la ballerina di Gira la Ruota? Quella fidanzata con il cantante dei Megasound, Jake Martin?» continuò. Sì, era mia sorella. Quando sentii quel nome un brivido mi percosse la schiena. Mi guardai il polso. Cazzo, avevo lasciato la bandana portafortuna nella sua auto.
«Merda, la bandana.» sbottai correndo lontano per poterlo chiamare senza disturbo.
Deglutii e feci partire la chiamata. La linea era connessa. Uno squillo, due squilli, tre squilli.
«Ehi.» rispose con tono dolce. Lo potevo odiare quanto volevo, ma se faceva così, non potevo che innamorarmi. E sentire quella strana e stupida stretta allo stomaco.
«La bandana. L'ho lasciata nella tua macchina.» gli dissi secca, ancora acida.
«Sì lo so. La sto tenendo in mano in questo momento. Ha il tuo odore. Se tu fossi qui, con me...» iniziò a dire con la voce calda. Un brivido mi percorse la schiena. Cercai di controllarmi, mi sentivo estremamente stupida. Stetti in silenzio, poi la campanella suonò. «Vieni a prenderla oggi pomeriggio?» mi chiese, ancora dolce.
«No, portamela tu.» gli dissi. «Lasciamela a casa. Ciao.» chiusi la chiamata.
Tra me e il ragazzo di mia sorella andava avanti da quattro mesi. Lui era più grande di me, di otto anni. E io mi sentivo dannatamente in colpa, ma stavo zitta. Perchè in fondo mi piaceva. Percorsi i corridoi in silenzio, rientrando in aula. La professoressa di latino era già in classe. Sulla lavagna aveva scritto “Carpe diem”. Sì, che bello. Un'altra lezione sugli autori latini. Mi sedetti al mio posto. Il ragazzo nuovo si era spostato alla mia destra ed eravamo vicini. Presi il libro di latino.
«Professoressa, non ho il libro. Potrei sedermi vicino a qualcuno?» disse guardandomi e sorridendo. Ricambiai il sorriso in modo ironico. Non avevo ancora piacere ad averlo intorno. La professoressa lo fece sedere accanto a me. Spostai il libro un po' verso di lui. Se prima mi ero divertita nel volerlo provocare, ora mi sentivo infastidita da lui. Forse Jake mi aveva sconvolta, come sempre.
«Io sono Robert.» si presentò. Eravamo fin troppo vicini. Potevo sentire il suo odore. Sapeva di cioccolato e cannella. Troppo dolce.
«Ciao.» dissi più semplicemente. Iniziai a fare pallini sul libro, riempiendo le lettere vuote dei titoli. Non capivo perchè questo qui si interessava a me. Sì, ok, era comprensibile a livello fisico. Ma io avevo un carattere di merda. Nel complesso anche Robert non era così brutto. Era più alto di me di circa dieci centimetri, magro, con gli occhi verdi. Aveva la carnagione chiara e i capelli biondi. Era il classico ragazzo americano. Iniziai a scrivere un pezzo a caso di una canzone. “No one cares when you're out on the street picking up the pieces to make ends...”, non me la ricordavo più.
«Meet.» mi disse Robert. «For what it's worth dei Placebo.».
«Sì.» mi uscì semplicemente. «Giusto.».
«Ascolti musica forte. Arctic monkeys, Placebo...» notò. Sorrisi, non sapevo che fare: non ero la persona adatta ai rapporti umani. «Io suono la chitarra.».
«Wow. Io canto.» confessai. «Qualche volta possiamo suonare insieme.» improvvisai. Che cazzo stavo facendo.
«Certo.» rispose velocemente. Stavo arrossendo, sentivo le guance avvampare. In fondo, potevo anche abituarmi ad averlo intorno.

«Amore, sei bellissima...» sentivo la sua voce entrando in casa. Gettai la tracolla in un angolo e mi diressi in cucina. Per mia sfortuna la cucina dava sul salone, dove mia sorella sghignazzava e si esercitava facendo aerobica. Lo stronzo se ne stava seduto sul divano a guardarla e apprezzarla. Mi davano il vomito. Iniziai a mangiare la mia pasta fredda. Finii per buttarla.
Cercai di salire le scale che portavano al piano superiore senza farmi notare. Ma non ci riuscii.
«Alex.» mi chiamò Jake.
Sorriso da persona gentile. «Ciao.» risposi.
«Vuoi venire qui con noi?» mi domandò. Mi imposi di trattenere il mio sorriso. Perchè mi stava facendo questo?
«No. Devo farmi la doccia.» mentii.
«Oh, tesoro, posso farmela prima io? Rimani qui a fare compagnia a Jake.» mi pregò mia sorella. Deglutii, acconsentendo.
Mi diressi nel salone, sedendomi sul divano accanto a Jake. Mia sorella prima di andarsene lo baciò molto presa, mentre lui mi guardava. Mi guardava e io sentivo un po' di fastidio dentro me. Judith se ne andò, lasciandoci soli.
«La bandana?» chiesi quando fui sicura che Judith avesse chiuso la porta del bagno.
«Eccola.» disse prendendola dalla tasca dei jeans. Me la porse e poi la tirò indietro. «Baciami.» mi ordinò malizioso.
«Sei stupido o cosa? Se entrassero i miei o venisse Judith che facciamo?» gli feci notare.
«Judith non uscirà dal bagno prima di due ore: è troppo impegnata a guardarsi allo specchio. I tuoi sono al lavoro.» rispose certo. Chi gli dava quest'enorme sicurezza?
Si avvicinò a me, poi prendendomi per la vita mi fece sedere sopra di lui. Lo guardai, come potevo non cedere? Aveva gli occhi scuri più belli che io avessi mai visto. La sua mano scivolò dentro la mia felpa, accarezzandomi la schiena. Pelle contro pelle, e non potevo chiedere di meglio. Le nostre bocche si avvicinarono, ma lui sapeva estremamente di mia sorella. Aveva uno strano sapore di lipgloss appiccicoso. Mi tirai indietro.
«Sai di mia sorella.» gli confessai. Non badò alle mie parole e, dopo un leggero bacio a stampo, scese a baciarmi il collo. Risalì e poi mi stuzzicò le labbra. Lo odiai, poi lo fermai. Finii per dargli io un bacio come si deve, un bacio come quelli di stamattina. Riuscii a riprendermi la bandana e mi staccai da lui, sedendomi sul divano.
Accesi la tv e per un po' non mi curai di Jake, che a volte allungava la mano per toccarmi dovunque. Io la scansavo sistematicamente.
Mi piaceva sentire i suoi occhi addosso, nonostante lo odiassi. Sì lo odiavo.
«Perchè stai con lei, sei poi fai sesso con me?» domandai.
«Perchè lei sui giornali è perfetta. Tu sei perfetta per tutto il resto.» mi rispose asciutto. Come se avesse un senso tutto questo.
«Oh, certo. E sei io un giorni mi stufassi?» continuai. Volevo capirlo. E volevo anche trovare un pretesto per smettere.
«Oh. Hai incontrato qualcuno di speciale?» mi prese in giro. Non risposi e continuai a cambiare canale. «Vedi, non troverai il modo di smettere. Tu sei mia, ma sono io che non sono tuo.».
Mi alzai scocciata. Me ne andai perchè ero stufa. Stufa dei sensi di colpa, stufa di addormentarmi con un buco nello stomaco, stufa di vomitare, stufa di lui, stufa di sentirmi un oggetto.
Robert, quello nuovo di scuola, mi aveva lasciato il suo numero. Lo presi dallo zaino e presi il cellulare. Guardi le due cose davanti a me: perchè no? Composi il numero e lo feci squillare. Uno, due, tre squilli. Quattro, cinque, sei. Persi le speranze.
«Pronto?» sentii rispondere. Ero abbastanza nel panico.
«Ciao. Sono Alex.» dissi semplicemente. Silenzio.
«Oh. Ciao.» si sorprese. «Dimmi.» sembrava gentile. Magari lo era davvero.
«Hai da fare?» chiesi sembrando gentile anche io.
«No.» aveva la voce carica di speranze.
«Suoniamo insieme se vuoi.» gli proposi sentita la sua risposta. Sembrava che non aspettassi altro. Sì, ok, forse anche io ne avevo veramente voglia. Mi lasciò un indirizzo, probabilmente era quello di casa sua. Mi guardai allo specchio. Forse dovevo cambiarmi e cercare di sembrare carina. Avevo la matita sbavata e ero tutta un casino. Mi tolsi la felpa e i pantaloni. Aprii il mio armadio e in quel momento si aprì la porta.
«Wow, mi leggi nel pensiero.» mi guardò appoggiato sullo stipite della porta. Cercai di non farci caso, finchè non chiuse la porta e si avvicinò a me cingendomi i fianchi. Un brivido mi percorse la schiena e mi allontanai da lui. Ero in reggiseno e mutande, ma mi sentivo a disagio, nonostante lui mi avesse visto così milioni di volte. Anzi, forse lui mi vedeva solo così.
«Dovresti uscire.» gli consigliai infilandomi i leggings neri strappati sulle ginocchia. Si sedette sul bordo del mio letto e mi studiava mentre sceglievo qualcos'altro da indossare.
«Hai una specie di appuntamento?» mi chiese sorridendo. Si alzò di nuovo di fronte a me e mi accarezzò lentamente la schiena., provocandomi una serie di brividi di piacere. Mi abbracciò e mi baciò. Per quanto non lo volessi, era dannatamente perfetto. Sentivo di non poter desiderare di meglio, eppure sapevo di meritarlo. Lo allontanai di nuovo.
«Sì. Ho una specie di appuntamento.» gli dissi indossando una canottiera nera. Almeno non mi avrebbe più toccata. E desiderai avere una museruola per non essere più baciata. Probabilmente, però, sarei stata io la prima a sfilarmela. Indossai poi una camicia a scacchi neri e verdi. Mi stava larga ma nel complesso ero carina. Ero passabile. Indossai le Converse verdi e mi pettinai i capelli rendendoli perfettamente lisci. Jake mi guardava e sentivo le sue occhiate che mi perforavano. Mi truccai gli occhi pesantemente di nero.
«Chi è lui?» mi chiese gironzolando per la mia stanza. Toccava le mie cose, apriva i miei cassetti. E mi sentivo a disagio perchè stava invadendo il mio mondo. Cercavo di non farci caso, ma mi dava fastidio. Facevo l'indifferente, perchè in fondo lui si meritava solo quello: l'indifferenza.
Finchè non toccò quel cassetto. E io morii cerebralmente per due decimi di secondo.
Lo fermai chiudendo il cassetto di botto, piazzandomi di fronte a lui e trovandomi a poca distanza. Sentivo il suo respiro sul collo.
«Perchè no?» mi chiese stando per baciarmi. Sentimmo un rumore: Judith era uscita dal bagno. Mi stampo un piccolo bacio a fior di labbra e uscì dalla mia stanza. Sospirai, tutti i miei segreti erano sicuri. In fatti in quel cassetto c'era il mio diario, anzi tutti quelli che avevo avuto sin da piccola.
Finii di prepararmi e, senza farmi vedere, sgattaiolai fuori di casa. Faceva abbastanza freddo e tenevo le mani in tasca. Nella mano destra avevo l'indirizzo di quella che probabilmente era casa di Robert. Sarei stata carina con i suoi e anche con lui. Nel giro di forse un mese ci saremo messi insieme e glielo avrei messo in culo a Jake. Si stava facendo sera e avevo sempre un po' paura di camminare da sola. Svoltai a destra e poi a sinistra. Mi ritrovai al 456 di Beckery Street. Ma non era quello che mi aspettavo. Non era una casa con un balconcino carino, con un giardinetto con diversi cespugli di rose. Era un locale abbastanza squallido, sembrava decadente. Il vento iniziò a tirare più forte e mi scompigliò i capelli. Presi il cellulare e feci il numero di Robert.
«Ehi.» mi rispose gentile. Mi morsi il labbro, era così gentile. E io mi sentivo in colpa.
«Sono arrivata al 456 di Beckery Street...» lo informai.
«Entra!» mi disse. Aspettai, speravo mi dicesse che avevo sbagliato indirizzo. «Ok, aspetta lì fuori, ti accompagno.».
«Ti aspetto.» chiusi la chiamata. Aspettai circa due minuti finchè sentii un pizzicotto sul fianco destro.
«Ehi.» mi salutò. Lo guardai: quella mattina mi era sembrato carino. Beh, adesso era... wow. Aveva i capelli biondi tutti incasinati, gli occhi contornati di nero e teneva una sigaretta in mano.
«Ehi. Wow.» mi uscii senza freno. Mi prese per mano e mi accompagnò dentro.

Fece un paio di battute sul posto un po' decadente e mi fece ridere.
«E questo posto?» chiesi mentre tenevamo due birre in mano e sentivamo un gruppo metal che intonava le note di qualche canzone dei Cannibal Corpse.
«Vedi, piccola punk, tu conosci ambienti di elitè. Qui si fa musica potente e bella anche con una bottiglia.» mi spiegò, sbattendo la sua bottiglia contro la mia. Sorrisi e feci un lungo sorso.
«Come si chiama?» domandai battendo le dita a tempo sul tavolino di fronte al palco dove ci eravamo appoggiati.
«Non ha un nome. È il posto per me, è la mia casa.» mi spiegò, ma io non lo capivo. Forse per le quattro birre, forse perchè era così strano Robert.
«Cioè, tu vivi qui?» continuai interessata.
«Sì, al piano superiore.» disse come se fosse logico. «Sembra strano ma io sono incasinato. A scuola posso sembrare “carino” ma qui sono davvero... me. Per me la musica è tutto, spendo tutti i miei solidi in cd e mando avanti questa baracca con mio padre. Ci basta.».
«Wow. È fantastico.» riuscii a commentare semplicemente.
«Vuoi venire con me? Ti porto a vedere le mie chitarre. I Cannibal Corpse mi hanno stufato.» mi propose.
Accettai e mi portò al piano superiore. Sembrava una casa normale, apparte i rumori molesti. In quella casa si riconosceva la mano del musicista, c'era puzza di musica. C'erano cartelloni di vecchi concerti e vinili ovunque. Mi portò poi nella sua stanza, una camera grande con un letto matrimoniale e milioni di cd. Mi fermai dopo averne contati trentotto. C'erano chitarre ovunque, e rimasi stupita. Stupita finchè non vidi la Les Paul Billie Joe Armstrong. E li fui completamente estasiata che inconsapevolmente lo baciai in bocca.
«Posso toccarla?» avevo la voce emozionata. Neanche Jake ce la aveva. Guardai Robert che annuì e toccai le corde. Non ero brava a suonare la chitarra, anzi ero piuttosto spastica. «È bellissima.».
«Allora...» disse prendendo un'altra chitarra elettrica di cui non riconobbi il genere. L'attaccò sull'amplificatore e l'accordò. «Start?» mi chiese dandomi un microfono. Ero ancora un po' stralunata da tutto questo, ma presi il microfono. Provai se funzionava.
«Che facciamo?» domandai piazzandomi di fronte a lui.
«Teenagers dei My chemical romance?» mi chiese prendendo dei fogli in mano.
«Mi metti in difficoltà. Non so bene le parole...» ammisi sincera storcendo il naso.
«Oh. Peccato, io avevo prenotato un'esibizione per noi con questa canzone...» mi confessò.
«Come sai che ho una bella voce? E se ti avessi preso in giro?» gli chiesi.
«Mi fido della gente.» fece spallucce.
«Fai male.» gli feci notare guardandolo negli occhi. Era così sincero.
«Può darsi. Ma tu ti sei fidata di me o sbaglio? Sei qui. Per qualche ragione.» notò sarcastico. Fece una nota con la chitarra. Mi passò il testo della canzone, il ritmo lo sapevo.
Mi diede il tempo e io iniziai a cantare. Lo guardavo negli occhi, avevamo feeling musicale: si capiva dalle prime note.
Suonava la chitarra come un dio mentre io mi sentivo solo urlare.
In fondo vere e proprie lezioni di canto non le avevo mai prese. Sentivo quelle di mia sorella e mi esercitavo come lei. Solo che mentre lei era rimasta a una ninna nanna, io ero andata oltre. Ero un'autodidatta.
Il problema era che a me non piacevano canzoni semplici. Avevo l'anima punk, ma ascoltavo qualsiasi cosa che coprisse il rumore dei miei pensieri. La mia musica doveva coprire il rumore dei miei pensieri. La musica era il mio paradiso felice, l'attimo in cui non c'ero e nessuno doveva aver bisogno di me. Che poi a che servivo? Ero solo la puttana del ragazzo di mia sorella.
In pochi conoscevano la mia personalità, il mio talento.
Nessuno sapeva niente di me. Eppure tutti pretendevano di sapere e dare dei giudizi.
La canzone finii e io avevo il fiatone, come dopo una lunga maratona. Era stato grandioso.
Guardai i suoi occhi e ci annegai letteralmente.
«Canti da dio.» disse anche lui col fiatone. Lo ringraziai.
Era stato come fare sesso. Provavo gli stessi brividi, le stesse sensazioni. Mi sedetti sul suo letto. Non riuscivo a dire una parola. Ero come bloccata, stupita. Si sedette accanto a me e mi tolse i capelli dal viso. Sentendo il suo respiro sul collo, mi elettrizzai. Il cuore martellava a tutto.
«Wow, mi sono scordata di dirti che sei un dio con la chitarra in mano. Hai fatto i compiti per domani? Oddio, mi viene la logorrea.» tirai fuori parole a caso. Ero in imbarazzo. Solo che sentivo un impulso dentro me. E avevo paura. Da quanto lo conoscevo 'sto tizio? Perchè mi aveva fatto questo effetto? Mi alzai dal suo letto. Mi guardava perplesso, come era giusto che fosse. «Non sembra ma sono normale. Riproviamo?» proposi riprendendo il microfono in mano. Gli offrii la mano per rialzarsi e lui la prese senza esitazione.
Riprovammo con la stessa energia di prima, conoscendoci musicalmente abbastanza bene. Capivo dove era forte e dove stentava. Era preciso, sbagliava di rado. Io invece ero più incasinata, meno precisa. Facevo quello che sentivo: quando cantavo non c'era spazio per complessi mentali. Avevo memorizzato la canzone, non che non la conoscessi. Semplicemente non sapevo bene le parole.
Riprovammo ancora e ancora e ancora. Finchè stremata mi sdraiai sul suo letto.
Un po' l'alcol mi rendeva impulsiva, un po' c'ero di mio; e quando lui si sdraiò accanto a me, sentii il bisogno di baciarlo. Gli sfiorai il braccio madido di sudore. Indossava una camicia nera a maniche corte con i primi tre bottoni slacciati. Mi stavo trattenendo.
«Sei... stanca?» mi chiese.
Guardai il soffitto e annuii. Non sapevo che fare, avevo voglia di baciarlo. Ma erano mesi che non avevo un approccio normale con un ragazzo, tutto per colpa di Jake. Lui faceva in modo di... sconvolgermi. “Tu sei mia, ma sono io che non sono tuo.” aveva ragione e io sentivo i brividi pensando a lui. E non dovevo, lo sapevo. Mi misi a sedere a schiena tesa. Sentii la sua mano poggiarsi sulla base della mia schiena. Mi faceva piacere. Robert era bello e bravo. E sembrava serio.
Improvvisamente mi alzai.
«Credo di dover andare a casa.» lo avvisai agitata.
«Oh.» sembrava deluso da me. Fece una smorfia e poi mi sorrise. «Ok. Sposterò la nostra esibizione.» mi disse dolce.
Mi sentivo in colpa perchè lui era stato fantastico con me. Guardai l'ora, erano le sette meno un quarto. Era quasi ora di cena.
«Ti va di venire a fare cena a casa mia?» gli proposi.
In fondo a mia madre non sarebbe importato. Anzi neanche sapevo se sarebbe tornata. E mio padre, bè, lui giocava a poker con i suoi amici di sera e di solito non ritornava a casa. Cenavo spesso da sole, io e mia sorella. A volte c'era anche Jake. E magari talvolta stavo anche da sola. E finivo per chiudermi in camera mia ad ascoltare la musica.
«Sì. Certo.» accettò sorridendo. «Devo solo andare da mio padre a chiedergli le chiavi di casa. Stasera è lunedì, di solito non c'è tanta gente.» mi spiegò. Era tenero, mi ispirava dolcezza. Quella che non avevo, o che avevo ma forse non avevo occasione di usare.
Gli sorrisi. Mi prese per mano e mi portò al locale, scendendo le scale.
Questa volta non guardammo dei gruppi esibirsi, ma mi portò dietro al bancone, dove un uomo parlava con una ragazza con i capelli corvini. Avrà avuto gli anni di Jake, otto più di me.
«Papà, lei è Alex Carson.» mi presentò, dopo un lungo parlottare tra di loro.
«Carson, eh?» mi chiese lavando dei boccali da birra.
«Sì.» risposi semplicemente. Aveva gli occhi più scuri del figlio e sembravano fratelli. Aveva i capelli un po' brizzolati ed era scuro di carnagione. Aveva un tatuaggio sull'avambraccio. Era affascinante, anche se lo vedevo poco perchè le luci non erano molto alte.
«Sai, conoscevo un Carson di queste parti. Io sono di qui, di Bristol, ma da poco siamo tornati da Londra. Quello che conosco io, si chiama Jo... Jar... Jer...» provava a sparare nomi. «Vuoti di memoria. Comunque stava con una certa Jenny.».
«Joseph Carson. E Jenny è mia madre.» capii tutto.
«Oh, esatto Joseph. E Jenny, beh, lei è una mia ex.» mi sorrise.

«Questa è la mia camera, ma non è figa come la tua.» gli dissi aprendo la porta della mia stanza.
«Carina.» commentò guardandosi in gro. Avevo dei poster in giro, foto e testi di canzoni appese in giro. Guardò lo stereo e lo accese.
«Stavi sentendo musica classica?» mi chiese sentendo le prime note.
«No. Cioè sì, a volte mi capita.» fui sincera.
«Sì, succede anche a me.» mi confessò. «Questo è qualcosa di quello italiano. Allevi.».
«Sì è lui.» confermai. Dopo un po' di note, mi prese per mano e l'altra me la poggio sulla schiena. Mi lasciai andare mettendogli il braccio intorno al collo. Ci muovevamo a tempo di musica. Ed era bellissimo. Si chinò a baciarmi, e non ce la feci a tirarmi indietro. Sarebbero bastati solo pochi attimi perchè potessi assaggiare il suo sapore.
Sfortunatamente, in quel preciso istante, Jake Martin aprì la porta.
«La cena è pronta.» disse asciutto vedendoci. Lasciai Robert, dopo avergli detto di scendere perchè dovevo cambiarmi.
Jake mi guardò un po' confuso.
«Non sono tua, smettila di pensarlo.» gli dissi da lontano.
 
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